Il governo Draghi manda in frantumi il Pd e i 5 Stelle

 

La caduta ed il fallimento del governo di Giuseppe Conte, e l’improvviso arrivo di Mario Draghi, hanno provocato due devastanti terremoti nel Pd e nel Movimento 5 Stelle. Draghi non è la causa, Draghi è l’epilogo di un vuoto, un logorio, un’infinità di contraddizioni che già c’erano da tempo nei due schieramenti politici e che sono emersi, tutti insieme, adesso, con la maggioranza ed il governo imposti dal presidente Sergio Mattarella. Seppure i percorsi seguiti per arrivare alla crisi sono diversi, entrambi i partiti hanno qualcosa in comune: la incerta strategia politica: confusa, contraddittoria, estemporanea, superficiale, con una montagna di errori. La crisi del Pd ha origini lontane, parte dalla sua nascita. Un partito uscito, nel 2007, da una fusione per incorporazione, dei Democratici di sinistra, come allora si chiamavano i reduci del comunismo, con la Margherita, un partito di centro, in pratica i frammenti residui della Democrazia Cristiana. Un innesto che non poteva avere successo per un insieme di ragioni, una molteplicità di cose diverse, esperienze, tradizioni, valori, interessi, ideali. Il nuovo partito, peraltro, è stato abbandonato quasi subito, già nel 2009, dallo stesso Francesco Rutelli, uno dei fondatori, che ha rilasciato dichiarazioni sconfortanti, disarmanti e stupefacenti: “Il Pd non è mai nato. Nonostante la passione e la disponibilità di tanti cittadini, non è il nuovo partito per cui abbiamo sciolto la Margherita e i Ds. Non ho nulla contro il partito democratico di sinistra, ma non può essere il mio partito. Non c’è un partito nuovo, ma il ceppo del Pds con molti indipendenti di centrosinistra”. Da questa analisi impietosa nascono, e si capiscono, i problemi di oggi, ma che travagliano il partito da allora, senza una strategia, con cambi di segretari (8 in 13 anni) e un’accozzaglia di ambiziosi e modesti personaggi, che hanno puntato sempre e solo, come ha riassunto e confermato qualche giorno fa, con estrema sincerità, Nicola Zingaretti, a posti e poltrone. Un coacervo di interessi e di affari, tra correnti e personaggi ambiziosi, sempre avidi, bramosi di potere e di successo. Sarebbe servito, per guidare il partito e mettere d’accordo tutte quelle mezzecalzette, un uomo forte, qualificato, stimato, autorevole. Che non c’è mai stato e non si vede nemmeno adesso. Un’armata Brancaleone che, guidata dal segretario Matteo Renzi, nelle ultime votazioni, il 4 marzo 2018, ha subito una pesantissima sconfitta elettorale: un modesto 18,72% e poco più di 6 milioni di voti, con una perdita del 7 % e di 2 milioni e 600 mila elettori. Un disastro che ha acuito ancora di più le critiche, le insofferenze, le ambizioni. Parzialmente accantonate, quando il Pd, immediatamente dopo le votazioni, è rimasto all’opposizione, a leccarsi le ferite elettorali, guardando la nascita del governo di Giuseppe Conte e l’alleanza 5 Stelle e Lega. Quando però i dem, con il Conte 2, insieme con i 5 Stelle e Leu, sono tornati al governo, da un’invenzione di Matteo Renzi, che subito dopo ha fondato il suo partito, Italia viva, nel Pd, con Nicola Zingaretti segretario, sono tornati a galla quelle ambizioni e quelle rivincite personali e di correnti che il potere porta fatalmente con sé. E negli ultimi tempi dopo la nomina di Draghi per la scelta dei ministri e dei sottosegretari immagino quanto si sia stata violenta la guerriglia interna per accaparrarsi i posti più ambiti. Sarà stata così indecente che ha disgustato anche Zingaretti che ha gettato la spugna e dichiarato la resa. Ora lo dicono in tanti che il partito è da ricostruire o da rifondare, ma ci vorrebbe quell’uomo di cui dicevo prima, esperto e autorevole, in verità più autorevole che esperto, che sia in grado di ritrovare qualche valore e controllare le ambizioni delle mezzecalzette. Le voci di alcuni candidati si rincorrono in queste ore in attesa dell’assemblea nazionale di domenica prossima e pare che un cerco consenso ci sia su Enrico Letta. Ma già trapelano i dubbi e i distinguo delle anime inquiete. Ha certamente l’autorevolezza che serve, ma dovrà anche saper essere, quando servirà - e servirà di sicuro - come diceva Sandro Pertini: a brigante, brigante e mezzo. Lo saprà essere?  

L’origine della crisi dei 5 Stelle è più recente, risale al 4 marzo 2018. Sì, paradossalmente, al giorno del successo, meglio del trionfo elettorale, enorme, straordinario, imprevedibile. Più di dieci milioni di voti con il 32,7 %. E’ stato, però, come affidare una Ferrari a qualcuno non che non abbia mai guidato nemmeno una 500, neppure sia mai andato in bicicletta. Ed è stato anche come quei poveracci che, improvvisamente, senza rendersi conto, diventano milionari giocando al superenalotto. Nella prima metafora sono destinati, fatalmente, a provocare un incidente e nella seconda a dilapidare tutti quei soldi perché non sanno come gestirli. I 5 Stelle hanno avuto l’abilità di fare sia l’una che l’altra cosa. Hanno mandato a sbattere il movimento in alcune battaglie politiche come alle regionali in Umbria e in Calabria e in tante altre elezioni e, ora, con il governo Draghi a perdere il peso che avevano in Parlamento. Ma hanno anche dilapidato milioni di consensi come sembrano indicare i sondaggi. È mancata l’umiltà, la consapevolezza dei propri limiti. E ancor oggi, fanno fatica a capire che un movimento che diventa partito deve essere guidato da qualcuno che ne sia capace, non può essere lasciato alla massima improvvisazione di chi capita. Pare che a raccogliere, e attaccare, i cocci si voglia dare l’incarico a Giuseppe Conte. Vedremo. Rimane il fatto che Pd e 5 Stelle con gli egoismi interni, e le loro crisi, hanno causato un terremoto nella politica italiana, favorendo l’arrivo di Mario Draghi e una nuova maggioranza. Hanno avuto anche l’abilità di perdere tutto o quasi il potere politico che avevano nel Parlamento e nel Paese. Non so se è stato un bene o un male. Per l’Italia, intendo. 

                         Fortunato Vinci – www.lidealiberale.com –Agenzia Stampa Italia

 

 

 

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