Quando la giustizia arriva in ritardo, o non arriva
Ho
letto sul Corriere della Sera che nel
2024 lo Stato italiano ha pagato 26,9 milioni di euro in risarcimenti per
ingiusta detenzione, e dal 2018 al 2024 la cifra complessiva ha superato i 220
milioni di euro. È una cifra enorme, ma, nella contabilità generale, conta poco
perché, di contro, i magistrati, con le loro inchieste - come raccontano spesso
alcuni pm - hanno recuperato molto di più con il sequestro di immobili e
contanti. La questione, però, non è contabile, anzi la partita doppia non
andrebbe nemmeno presa in considerazione, non serve e non conta. Contano molto,
invece, le conseguenze degli errori giudiziari e della conseguente
carcerazione: le notizie sui giornali, le umiliazioni, i costi per la difesa, per
tutti, esperienze devastanti. Cancelliamo subito il derby demenziale tra
innocentisti e giustizialisti: improprio, inopportuno e dannoso. Le persone serie e di buon senso devono solo
pretendere che gli innocenti siano lasciati in pace e i colpevoli puniti per i
reati commessi. Nient’altro. Perché solo così si può fare, e si fa, giustizia. Mi
trovo seduto su una panchina, accanto a me una vittima di ingiusta detenzione.
Siamo in un paesino calabrese, in provincia di Catanzaro. Lo chiamo Paolo, con
un nome di fantasia. Ormai settantenne, questo signore, malaticcio, è appena
uscito dal carcere dopo quattro anni di detenzione nella casa circondariale di
Secondigliano, “uno dei posti peggiori per scontare le pene”. L’accusa che gli
è caduta addosso, improvvisamente, tanti anni fa, era di associazione per
delinquere nella forma aggravata di “tipo mafioso”. Lui, per i magistrati
inquirenti, era da considerare uno di coloro che “promuovono, dirigono o
organizzano l’associazione mafiosa”, in questo caso la ‘ndrangheta e infatti la
richiesta di detenzione, con l’aggravante, era stata di 18 anni di carcere. In
pratica era considerato un boss. Ma che cosa ha fatto per rientrare
nell’ipotesi prevista dall’art. 416 bis del codice penale? Nulla. E allora come
è caduto nelle maglie investigative dei magistrati calabresi? Risulta che non
ha fatto niente, però è lontano parente di un personaggio ritenuto esponente di
spicco della ‘ndrangheta e come tale - hanno pensato i pm - non può non aver partecipato, in qualche modo,
ad attività malavitose. E, allora, nel dubbio, meglio arrestarlo. Brillante presunzione
di colpevolezza. Paolo ci ha impiegato 423 udienze, quattro anni e molti soldi
per gli avvocati per dimostrare che non aveva fatto nulla, infatti è stato assolto
già in primo grado perché “il fatto non sussiste”, assoluzione non appellata e
dunque definitiva. Gli stessi pm, evidentemente, si sono resi conto che avevano
preso un abbaglio, ma se in Tribunale non ci fossero stati giudici preparati e accorti,
l’errore sarebbe diventato ancora più grave e più pesante. Ora avrà il
risarcimento che gli spetta, ma la sconfitta dello Stato e della giustizia
rimane, indelebile, quel calvario non è monetizzabile, quegli anni perduti non
si potranno recuperare, nella contabilità non rientra quello che è più
importante nella vita di una persona: l’onore, oltraggiato e umiliato.
Fortunato Vinci – www.lidealiberale.com
– Agenzia Stampa Italia
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