Silvio Berlusconi e Forza Italia, il suo partito, "liberale", che non convince
Silvio Berlusconi, con un
articolo sul Corriere della Sera,
ripropone, all’attenzione dei lettori, e soprattutto degli elettori,
l’importanza di un partito di centro. Convincono, e sono peraltro di stretta
attualità, le argomentazioni sull’interesse di una “forza convintamente
europeista, interprete e prodotto del patrimonio ideale occidentale con una
culturale di governo, pragmatica, aperta al futuro, alla modernità, al
progresso. Sulla base di una visione liberale ampia, nella quale confluiscono
sensibilità diverse, laiche e cristiane”. E poi pone il quesito: “Esiste oggi
in Italia, o si profila per l’avvenire, qualche altra forza politica
significativa che possa o voglia svolgere questo ruolo? In grado di rivolgersi
al tempo stesso ai liberali, ai cristiani, ai riformatori, ai conservatori,
agli europeisti, ai garantisti con una visione comune di che Italia vorremmo
per i prossimi decenni? Sinceramente - conclude Berlusconi - non vedo nessun
altro”. Oltre, naturalmente, a Forza Italia. Ha perfettamente ragione nel dire
che manchi una forza politica che abbia alla base quei valori che elenca. In
grado di dare equilibrio e stabilità alla politica italiana. Era il programma, non sempre e non del tutto
realizzato, della Democrazia Cristiana. Un partito, discutibile per tante
ragioni, ma che aveva rappresentato, per mezzo secolo, il faro, l’approdo, liberale,
democratico, cristiano per la maggioranza degli italiani. Quel faro,
quell’approdo, non c’è più. Quei valori dispersi. Quegli elettori smarriti. E
non è un caso che l’unico democristiano rimasto, Sergio Mattarella, sta al
Quirinale, apprezzato da tutti e, oggi, elogiato anche da El Pais, autorevole quotidiano spagnolo. In verità c’è stato un
tentativo di riproporre quel progetto. Era stato con la Margherita, ma poi,
sciaguratamente, come quasi a scusarsi ad averlo concepito, quel partito è
stata fatto scomparire con una fusione, la più infelice e fallimentare che si
potesse immaginare, quella con i Democratici di sinistra, come allora si
chiamavano i reduci del comunismo italico. Non c’era nulla, proprio nulla, da
qualsiasi punto di vista, perché i due partiti si unissero. Scrissi allora
molti articoli, perché era evidente che lo squalo di sinistra, Ds, forte di un
notevole (almeno allora) peso elettorale avrebbe fatto un sol boccone degli ex
democristiani. Ma non erano solo le forze politiche in campo a sconsigliare la
fusione e la nascita di un nuovo soggetto, c’erano aspetti molto più
importanti, e cioè i valori, quelli cristiani, la tradizione culturale
democratica e liberale. Beni che non possono essere traghettati, per una
infinità di ragioni, in un corpo che, seppure con un pudico quanto inutile ex
davanti, rimaneva sempre e comunque comunista. Un innesto che non poteva avere successo.
Ancor oggi mi chiedo che cosa abbia potuto, nel 2007, obnubilare così tanto le
menti dei politici del tempo, Francesco Rutelli in primis, per andare
verso la dissoluzione e in pratica alla cancellazione della Margherita. E il nuovo partito che è nato, il Pd, è stato
abbandonato quasi subito, già nel 2009, dallo stesso Rutelli, con dichiarazioni,
disarmanti e stupefacenti, se fatte da uno dei fondatori: “Il Pd non è mai
nato. Nonostante la passione e la disponibilità di tanti cittadini, non è il
nuovo partito per cui abbiamo sciolto la Margherita e i Ds. Non ho nulla contro
il partito democratico di sinistra, ma non può essere il mio partito. Non c’è
un partito nuovo, ma il ceppo del Pds con molti indipendenti di
centrosinistra”. Come volevasi dimostrare. Pci, Pds, Ds, cambio solo del nome,
ma il Dna rimane lo stesso: bolscevico, come ammette lo stesso Rutelli. Un
errore politico gravissimo e madornale. Nella Margherita non c’erano statisti,
ma nemmeno le mezzecalzette che hanno portato in dote i Ds, e c’era, cosa ancor
più importante, gran parte del patrimonio della Democrazia Cristiana, che ha governato
mezzo secolo perché rappresentava il popolo prevalentemente cattolico, che vuole
lavorare, pagare tributi equi e vivere una vita tranquilla, in libertà. Questo
era, ed è anche quello che è ancor oggi il programma, il manifesto, di una
semplicità disarmante, del ceto medio e della gente comune che poi è la stragrande
maggioranza degli italiani, che ora è turbata e confusa, senza un partito in
grado di rappresentarla. Non è un caso che il 40 % degli italiani (cosa
gravissima) non vuole andare a votare. Forza Italia, forse, era nato per questo.
Silvio Berlusconi sperava di prendere i voti, diversi milioni, della Democrazia
Cristiana. E, all’inizio, aveva illuso molti, compreso chi scrive, ma presto si
è visto che non era, e non lo è tuttora, quel partito che avrebbe dovuto essere,
e quello che descrive oggi, con molta fantasia, Silvio Berlusconi. La perdita
dei voti, e dei consensi nei sondaggi, dimostrano, così come tutti gli anni in
cui Berlusconi è stato al potere, quando non ha saputo mantenere le promesse, e
la delusione è stata grande. Ha fatto di Forza Italia, il partito padronale. Facendo
soprattutto i propri interessi. Come se non bastassero le leggi ad personam fu perfino capace di costringere la Camera a votare sulla identità di Ruby, nipote di Mubarak, ex
presidente egiziano. Quell’incredibile e vergognoso falso - vicenda umiliante
per il Parlamento e per lo stesso Berlusconi - lo approvarono, oltre a tutti i
deputati del Pdl, (Forza Italia), tra cui Giorgia Meloni e Maria Elisabetta
Casellati, attuale presidente del Senato, anche 59 deputati della Lega Nord. Altrettanto
disastrosa, deludente e fallimentare è stata l’esperienza di Matteo Renzi, che
ora, dopo aver abbandonato il Pd, di cui è stato anche segretario, un attimo
dopo aver fatto nascere il governo Conte 2, ha fondato Italia viva. Ma
l’operazione è destinata a non avere successo perché Renzi, come stanno a
dimostrare i sondaggi, naviga intorno ad uno stentato 3%, dopo aver dimostrato
di non avere la stoffa, pur avendo avuto tante occasioni, ha saputo far collezione
di bluff e fallimenti. Un modesto faccendiere e un pessimo politico. Come sta
dimostrando di essere anche in questi giorni, con le minacce di crisi di
governo in un momento drammatico in cui servirebbero collaborazione e serietà. All’inizio
dell’anno ha promesso di andare a Palazzo Chigi per consegnare a Giuseppe
Conte, come ha fatto Dio con Mosè, le sue tavole, arricchite di 100 regole.
Senza il rispetto di quelle regole, ci sarà la crisi di governo. Un povero
naufrago che non sa più cosa fare. Anche
il dirigente d’azienda ed ex ministro, Carlo Calenda, ha fondato un partito: “Azione”,
il partito “di chi fatica, di chi lavora e di chi studia”. Una presentazione
troppo scontata e banale per suscitare entusiasmi. Anche lui, per i sondaggisti,
è intorno a 3%. Un’idea ce l’ha avuto anche Giovanni Toti, il presidente della
Liguria che, dopo aver lasciato Forza Italia, ha pensato a “Cambiamo”, una
creatura politica praticamente già morta in fasce (i consensi sono solo all’1%)
come peraltro gli altri due. Insomma ci sarebbe bisogno, sì è vero, di un
partito di centro, moderato e liberale, ma guidato da uno statista affidabile,
carismatico e onesto.
Fortunato Vinci –www.lidealiberale.com –
Agenzia Stampa Italia
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