Le possibili cure per combattere il Sars-CoV-2 che, però, non decollano, chissà perché?
A
sentire le notizie martellanti che ci propinano in dose massicce, attraverso i giornali
e le tv, c’è una sola ed unica strada per combattere efficacemente il Sars-CoV-2:
i vaccini. Però ci vuole un po’ di tempo
e poiché ci sono le varianti inglese, brasiliana, nordafricana, e anche la
versione ibrida, non si sa nemmeno se questi vaccini siano efficaci per questi
tipi di mutazione. Intanto, sui vaccini, è nato, e cresciuto, un gigantesco
business, mischiato a tangenti, e squallide e volgari speculazioni, con conseguenti
indagini della magistratura. Sull’ infezione, l’ultimo bollettino riporta
15.500 nuovi casi, 353 morti e un aumento del 14 % dei ricoveri in terapia
intensiva, che, negli ultimi giorni, si sono stabilizzati sui duemila. Con le
Regioni che cambiano colore ogni settimana. Se questo è lo scenario, ci
sorprende il fatto che alcune cure che sembra siano efficaci per combattere il
virus, non decollano. Le notizie di questo genere arrivano con il contagocce,
fatte filtrare con molta parsimonia, timidamente, in forma, quasi, clandestina.
Ricerche, esperimenti, guarigioni all’insegna della massima prudenza. Sì, va
bene, forse nessuno ancora ha trovato la cura definitiva, e non è corretto
illudere la gente, ma se vengono utilizzate sostanze presenti nell’organismo umano,
e senza controindicazioni, non capisco perché non si debbano provare su larga
scala, magari sarà un buco nell’acqua, ma credo che non solo valga la pena
provare, credo sia dovere delle autorità sanitarie sollecitare e finanziare
questo genere di ricerche. Lo chiedono i 95.235 già deceduti, solo in Italia. Abbiamo notizia solo di tre ricerche.
Vediamole. La prima notizia è di luglio scorso. C’è a Genova il dottor Maurizio
Pianezza, pneumologo e chirurgo oncologico, nonché appassionato e studioso di
biofisica (cosa che nella questione non è affatto un dettaglio) da dieci anni
nell’Ema, l’European medical association di Bruxelles, convinto che si possa
sconfiggere il Covid-19 con i raggi ultravioletti. Partendo da un dato
oggettivo. “In Italia la carica virale del Covid-19 è stata bassissima nel
periodo solstizio-afelio perché l’irradiazione dei raggi solari ha avuto in
quel periodo un angolo di incidenza preciso. Se, quindi, in una camera si
potesse sottoporre i malati da Covid-19 ai raggi Uvb, a quel 10% di raggi che
arriva sulla terra e che vengono utilizzati anche in dermatologia per un tempo
brevissimo di solo tre minuti, ci potrebbe essere la guarigione. Se poi dovesse
avere efficacia sarebbe un metodo semplicissimo per sanificare anche oggetti e
locali”. Insomma una cosa straordinaria. In qualsiasi altro Paese al mondo si
sarebbero precipitati a fare la sperimentazione di quella che potrebbe essere
l’arma letale per il virus. E, invece, no. Da noi non possiamo nemmeno sapere
se l’idea del dottor Pianezza, che si basa sullo studio tecnico dell’analemma
solare, è o meno efficace, perché l’Istituto Superiore di Sanità ha rifiutato
il progetto e quindi la possibilità di fare la sperimentazione. Una cosa
assurda e irresponsabile, del tutto incomprensibile. Pensando male (e, come si
sa, spesso si azzecca) si potrebbe dire che il punto debole del progetto è il
costo: una camera attrezzata, come dice il dottore genovese, costerebbe troppo
poco, solo 10.000 euro. E, allora, è meglio evitare questa “insidiosa” sperimentazione,
perché se poi dovesse funzionare c’è il problema di come utilizzare i miliardi
già pronti per il vaccino.
A
Roma c’è, invece, la professoressa Elena Campione, dermatologa, dell’Università
di Roma Tor Vergata ed è arrivata, dopo studi, ricerche ed esperimenti, ad una
conclusione molto interessante. “Una glicoproteina, la più antica
filogeneticamente che noi stessi produciamo, è in grado di fungere da barriera
nei confronti del virus. Come? Sottraendogli il nutriente che tanto ama, il
ferro. Sì perché una delle funzioni principali della lattoferrina è quella di
sequestrare il ferro. I virus a RNA, come il Sars-Cov-2, per replicare hanno
bisogno di ferro, che diviene quindi un carburante per la proliferazione
virale. E dopo esperimenti di dinamica molecolare
e bioinformatica, condotti dal dott. Mattia Falconi, è stata dimostrata
l’evidenza dell’interazione tra la lattoferrina e lo spike, glicoproteina
esterna del Sars-Cov-2. Importanti anche due dati: la rapidità d’azione con cui
lavora questa glicoproteina e le sedi in cui agisce. Mucosa nasale, mucosa
respiratoria e intestino, sono queste le parti del nostro corpo in cui il virus
“abita”, nel sangue non ne vuole sapere di andarci. La lattoferrina “corre” in
queste sedi per esplicare la sua funzione. In più, la lattoferrina non fa nulla
al nostro organismo in termini deleteri, se non potenziare il meccanismo difensivo
e cosa più importante è che viene prodotta, in maniera innata, dal nostro
sistema immunitario. La prova ulteriore della mancata tossicità di questa
proteina sta nel fatto che viene somministrata nei neonati negli incubatori e
ai bambini pretermine. Non mi sento di affermare che abbiamo trovato – dice,
concludendo, la professoressa – la soluzione per eliminare definitivamente il
Covid, io sono convinta che il rimedio definitivo sia il vaccino, tuttavia la
supplementazione della lattoferrina è una prova della funzione protettiva di
essa. In questa fase così critica è necessario abbattere il contagio, questa
evidenza scientifica supportata da un meccanismo riproducibile e dati
incontrovertibili, può costituire un tamponamento, in attesa che arrivi il
vaccino”.
La
terza ricerca che conosciamo, una nuova straordinaria tecnica per combattere il
Covid-19, è nata, senza risorse, con straordinario impegno e serietà, in
“silenzio e umiltà”, in Calabria, in quel deserto sanitario conseguenza di
dieci anni di commissariamento. La stanno portando avanti, nell’Ospedale
Metropolitano di Reggio Calabria, il primario di oncologia, Pierpaolo Correale,
il primario di terapia intensiva Sebastiano Macheda, in collaborazione con il
dottor Michail Sitkovsky della Northeastern University di Boston. Il dott.
Correale spiega così la metodologia. “L’adenosina, attraverso dei ricettori, ha
la capacità di fermare completamente l’infiammazione, mettendo a riposo i
tessuti e avviando il processo di riparazione dei medesimi. Allo stesso tempo
funziona da sentinella d’allarme del processo immunitario, attirando la sua
attenzione – se così si può dire – e innescando la sua attività. L’adenosina è
un farmaco antiaritmico ma con una forte azione antinfiammatoria, viene
somministrato ai pazienti affetti da Covid-19 attraverso una via innovativa:
per via inalatoria attraverso nebulizzazione, l’aerosol che tutti conosciamo.
L’adenosina, peraltro, costa pochissimo, solo 70 euro e riduce i tempi di
ricovero da 15 giorni a 5-6 giorni”. Poi c’è, però, la questione più delicata:
ci possono essere controindicazioni? “Assolutamente no. L’adenosina è molecola
endogena, un antinfiammatorio prodotto dal nostro stesso organismo, che è in
grado di spegnere l’infiammazione da Covid-19 e indurre i necessari processi di
riparazione dei tessuti danneggiati”. Potrebbe essere una terapia aggiuntiva
rispetto al vaccino, che va somministrato a tutti per arginare la pandemia e la
diffusione del contagio, l’adenosina serve, invece, per curare i malati. Come è
già avvenuto con 12, su 14, pazienti ricoverati a Reggio in terapia intensiva e
completamente guariti. Due armi complementari che però - questa è la sorpresa
sconcertante - l’Aifa, l’agenzia del farmaco italiana, non ne ha autorizzato la
sperimentazione: “In considerazione - questa la sconvolgente motivazione - di un rapporto rischio/beneficio
non definibile, si ritiene che a fronte dell’attuale disponibilità di alcune
opzioni terapeutiche di provata efficacia lo studio proposto non possa essere
autorizzato”. Visto le stragi che il Covid-19 sta provocando in tutto il mondo,
non sapevo che ci fossero già “alcune opzioni terapeutiche di provata
efficacia”. Mi pare sia inutile aggiungere che, nella ricerca, siamo al 27 esimo posto nel mondo.
Fortunato
Vinci – www.lidealiberale.com – Agenzia Stampa Italia
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