Sui giornali e in tv, la guerra quotidiana tra lustrascarpe e giornalisti

 

Il professore Cordova, mio insegnante di italiano, zio del noto magistrato reggino, li chiamava “i pulizza”, in dialetto calabrese; si riferiva ai lustrascarpe, quei poveretti che, una volta, per poche lire, all’angolo delle strade, lucidavano le scarpe ai signori. Operazione peraltro molto richiesta, e necessaria, perché, a quei tempi, tutte le strade erano polverose, almeno molto più di adesso. Ora questo termine, ogni mattina, viene usato da qualche giornalista nei confronti di un altro giornalista nella guerra quotidiana, che avviene sui giornali e in tv, tra le varie fazioni in campo. Ci sono quelli che elogiano la Meloni contro quelli che raccontano delle nefandezze del governo, tra quelli che tifano Putin contro i pro Ucraina, quelli a favore di Israele con quelli con Hamas e pro Palestina. E via litigando. Apparentemente non ci sarebbe nulla di strano, sarebbero opinioni a confronto. Invece non è così, perché tutto avviene pur di arrivare a conclusioni preconfezionate, a prescindere dai fatti, di ciò che è veramente successo. Perché se è giusto e accettabile che ci sia libertà assoluta di opinione è altrettanto doveroso e necessario che queste opinioni non siano a prescindere, ma derivino dalle considerazioni di quanto successo, quindi dai fatti. Mi riferisco, ovviamente, ai giornalisti, iscritti all’Albo, gli altri la possono pensare e raccontare come vogliono, naturalmente. Solo che per i giornalisti c’è questo obbligo, imposto dall’essere giornalista: assoluta libertà di opinione, ma con il dovere di non ignorare o, peggio ancora, travisare i fatti. E invece succede, certo non sempre, ma molto spesso, che qualcuno si meriti il rimprovero dal collega, con il conseguente, poco lusinghiero, appellativo di lustrascarpe: danneggia non solo la sua credibilità, ma tutta la stampa. Nasce qui l’inquietante quesito: ma la stampa è veramente libera? E i giornalisti possono scrivere tutto quello che pensano e che vogliono? O sono pagati solo per dire quel che vuole il datore di lavoro (editore o politico), condizionando pesantemente l’opinione pubblica? Un esempio rende bene l’idea. Questa mattina su un giornale c’è l’intervista a Matteo Salvini, e a proposito del perché “ha deciso di aprire (ammesso che sia vero, ndr) i cantieri del ponte sullo Stretto di Messina”, il ministro ha risposto: “Perché serve (ma a chi? Ndr). Il primo progetto del ponte è del 1866 - ha aggiunto Salvini -  e mi sono detto: vediamo se dopo 160 anni si riesce a mettere a terra qualcosa di cui si narra nei tempi degli architetti romani”. Senza nessuna replica da parte del giornalista. Oltre al leggendario riferimento, peraltro assai suggestivo, degli architetti romani rimasti lì, a Messina, ad armeggiare intorno al 1866, c’erano da fare alcune domande, cominciando dal perché la maggioranza delle popolazioni interessate non lo vogliono. E perché ci sono le riserve degli ingegneri di mezzo mondo sulle incognite tecniche, i dubbi e le perplessità per i rischi sismici di un’opera che, comunque, sarà devastante per l’ambiente; oltre che per i conti pubblici, visto che costa più di 13,5 miliardi di euro, che avrebbero fatto assai comodo se utilizzati per la manovra di bilancio che proprio in questi giorni è all’esame del Parlamento. E ci sono pure da considerare i 70 milioni di euro l’anno per la manutenzione ordinaria e straordinaria. Una follia, che è inspiegabile come non venga fermata dalla Corte dei Conti e da tutti coloro che dicono di voler tutelare i conti pubblici e il bilancio dello Stato.  Con la risposta di Salvini, invece, chi legge, e non sa di cosa si parla, è indotto a pensare che il ponte sullo Stretto serva veramente, e che abbia le difficoltà e i costi di un campo di bocce. E che gli infiniti problemi siano già stati tutti risolti. Senza che nessuno dica che lo Stretto, attualmente, si attraversa, con l’automobile al seguito, in appena 25 minuti e non nei tempi inventati da Salvini, raccontati, da anni, dappertutto, ai giornali e in tv, senza che mai un giornalista gli abbia fatto qualche obiezione. Ecco, così, la credibilità della stampa viene messa seriamente in discussione e la gente è portata a fidarsi solo dei social, che è come cadere dalla padella nella brace. Il motivo per cui ci vorrebbe qualche lustrascarpe in meno e qualche giornalista in più.    

Fortunato Vinci – www.lidealiberale.com – Agenzia Stampa Italia

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