Il campo largo è troppo spostato a sinistra e, senza centro, appare una alleanza zoppa e, finora, minoritaria e perdente

 

È opportuno, oltre che necessario, fare qualche riflessione, dopo la pesante sconfitta di Matteo Ricci (Pd) (8% in meno rispetto al vincente Francesco Acquaroli, FdI) nelle elezioni regionali delle Marche, di qualche giorno fa, e quella pesantissima di Pasquale Tridico (5S), ieri, in Calabria, sconfitto da Roberto Occhiuto (FI) (57,26 a 41,73 per cento) sulla la validità e la consistenza del campo largo e la scelta dei candidati. Premesso che non ci sono, come sembra, alternative al campo largo, anche se servono programmi comuni qualificati e convincenti, c’è subito però da aggiungere che è largo, anche troppo, ma solo a sinistra, tanto che appare del tutto improprio chiamarlo centrosinistra, in quanto nessuno capisce quale sia il centro. E i fatti della scena internazionale di questi ultimi tempi ne hanno messo, ancor più in evidenza, la radicale collocazione politica. Quindi, oltre alla scelta del candidato, che spesso non convince del tutto, come con Ricci nelle Marche e Tridico in Calabria, due eletti poco più di un anno fa nel Parlamento europeo, catapultati alle regionali solo per raccogliere voti, operazione infelice, fallita clamorosamente, c’è, che convince ancora di meno, la coalizione così tanto spostata a sinistra, come stanno a dimostrare, oltre ai risultati finali, anche gli astenuti: nelle Marche, aumentati di circa il 10% rispetto alle precedenti regionali e in Calabria, con i votanti ridotti al 43,14%. Mi pare evidente che molti elettori non vadano a votare perché non trovano, un’area, un partito, moderato e progressista, all’interno del campo largo. Che, contrariamente a quello che sostiene qualche sprovveduto, può fare, invece, la differenza. Vale per le regionali, ma, soprattutto, vale, ancor di più, per le politiche. La questione, in verità, ha radici lontane, all’ottobre del 2007, quando si è deciso di far confluire la Margherita (con i reduci della Democrazia Cristiana) nei Ds (con i reduci del Partito Comunista), per dar vita al Pd. Allora si è commesso un clamoroso, imperdonabile errore. Lo scrivevo, già a quei tempi, e lo dicevo direttamente ad alcuni esponenti di punta della Margherita che conoscevo personalmente. Un errore che a me, ma non solo a me, sembrava piuttosto evidente per tante ragioni. Ritenevo, come poi è avvenuto, che la Margherita sarebbe stata facilmente sopraffatta dall’alleato, molto più forte, numeroso e potente. Infatti, chi questo “matrimonio” lo ha voluto, concepito e realizzato è uscito dal partito quasi subito, spiegando pure che il Pd era un “partito mai nato”. Questo avrebbe portato, come diretta conseguenza, che gli elettori di cui sopra, non avrebbero più avuto rappresentanza nelle sedi istituzionali e per questo, soprattutto per questo, non sono più andati a votare. E gli esponenti del Pd degli ultimi anni non hanno capito quello che, invece, ha capito, immediatamente, Giorgia Meloni. Appena eletta a palazzo Chigi, ha cercato di spostare drasticamente il suo partito, Fratelli d’Italia, da destra alla moderazione del centro. Lo so: qualcuno con ostinazione lo nega, rimane però il fatto che lei, con il suo partitino, dal 4%, ora, viaggia intorno al 30%. E sempre al centro, nel suo schieramento, c’è Forza Italia che con Antonio Tajani mantiene, con un certo, apprezzabile equilibrio, un dignitoso 10%, ritenuto peraltro un punto di partenza per un salto in avanti significativo, come ha mostrato il voto calabrese, di cui si è vantato, immediatamente, in tv, lo stesso Tajani. In questo modo, però, un’altra parte dei moderati, che non pensano di poter essere rappresentati né da Meloni e nemmeno da Tajani, non sanno chi votare e preferiscono non andare al seggio, tanto che i votanti sono, ormai, sotto il 50% e, qualche volta, come ieri in Calabria, addirittura, come già detto, ridotti al 43,14%. Un vulnus per la democrazia, ma non importa a nessuno. L’esempio contrario, che ha fatto qualcuno, per la vittoria di Stefania Proietti (Pd), l’anno scorso in Umbria, è sbagliato e, semmai, conferma la tesi sopra esposta, perché in questo caso non è stato il centrosinistra a vincere (infatti ci sono già tanti pentimenti) ma è stata Donatella Tesei (Lega), dopo 5 anni di disastri, testardamente riproposta da Matteo Salvini, a perdere. E nella elezione della Proietti, se si vuole spiegare e comprendere fino in fondo il suo successo, ha pesato, come sindaco di Assisi, il robusto sostegno ricevuto proprio dal centro, di ispirazione cattolica. CVD, come volevasi dimostrare,  direbbero i matematici. Al centro, in verità, ci avevano pensato sia Matteo Renzi che Carlo Calenda, due galletti, ambiziosi e saccenti, che, però, non sono stati capaci di formare un nuovo e solo partito di centro, liberale, credibile e affidabile. Ora è nata, sulle ceneri di Italia viva, Casa Riformista, l’ultima “creatura” che ha debuttato, con un 4,5%, alle regionali calabresi, per dare, appunto, casa e voce ai moderati centristi, cattolici e progressisti, esuli, completamente abbandonati dopo la scomparsa della Dc.  

Fortunato Vinci – www.lidealiberale.com – Agenzia Stampa Italia 

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