L' ossessione dei politici per le riforme che non servono al Paese

 

Tra i (tanti, troppi) vizi dei politici c’è anche quello di inventarsi la necessità delle riforme, a volte come un’autentica ossessione.  Vista l’insistenza, non si capisce se per lasciare ai posteri il proprio nome scolpito nella normativa o perché la riforma serva veramente ai cittadini di questo Paese, per vivere meglio. Molto più probabile, entrambe le cose. Che in Italia ci sia da cambiare qualcosa, anzi più d’una, è vero, il guaio è che, spesso, non riuscendo a studiare bene la questione, e, quindi, non sapere le conseguenze, invece di migliorare si peggiora o comunque si ingarbugliano così tanto le cose che sarebbe stato meglio lasciar perdere. L’esempio clamoroso è l’esame di maturità. Non c’è stato ministro dell’Istruzione che non abbia voluto cambiare le modalità per l’esame conclusivo degli studi superiori. Anche un banale dettaglio, tanto per dire che ha fatto la riforma.  Un delirio di onnipotenza, con novità che arrivano, immancabilmente, ogni anno. La recente riforma proposta da Giorgia Meloni, sulla elezione diretta del presidente del Consiglio, è stata oggetto di critiche feroci, mentre è tornata d’attualità, concepita e auspicata, anni fa, da Silvio Berlusconi ed ora portata avanti da Forza Italia, la separazione delle carriere dei magistrati. Le motivazioni sono note: i Pm, che svolgono l’attività inquirente, e i giudici, che svolgono le funzioni giudicanti, sono nella stessa Associazione, lavorano negli stessi palazzi, sono colleghi che spesso si frequentano e possono, qualche volta, essere anche amici, insomma - queste le conclusioni del ragionamento che sta alla base della riforma - le richieste dei Pm difficilmente vengono cambiate dai giudici nelle sentenze. È veramente così? Le sentenze dell’ultimo grande processo alla ‘ndrangheta del vibonese, “Rinascita Scott”, in cui erano coinvolti 338 imputati, che si è concluso, in primo grado, qualche giorno fa, dimostra esattamente il contrario. Dimostra che i giudici del Tribunale di Vibo Valentia, anzi le giudici, (erano tre donne, Brigida Cavasino, presidente, Claudia Caputo e Germana Radice) nonostante l’accusa fosse stata sostenuta da Nicola Gratteri, con altri tre magistrati, in camera di consiglio, durata un mese, hanno deciso e sentenziato decine di volte, anzi quasi sempre, in maniera difforme a quanto chiesto dalla pubblica accusa. E, pur se ha retto l’impianto accusatorio complessivo, solo in 52 casi (il 15%) c’è stata (quasi) esatta corrispondenza tra le richieste della Dia e le sentenze, sia per le condanne che per le assoluzioni. Una assoluta autonomia tra chi ha fatto le indagini e chi è stato chiamato a valutare le prove e decidere in merito. La totale autonomia delle giudici è dimostrata anche dai 110 imputati assolti, nonostante la richiesta di condanna (anche fino a 20 anni) da parte dei magistrati inquirenti. Quale sarebbe stato il condizionamento che sostengono i fautori della divisione delle carriere? Semmai fa riflettere e preoccupa, ma questo non c’entra niente con la riforma, è un altro argomento e un’altra questione, il 32% di assolti. Certo, ancora è il primo grado di giudizio, ci sarà l’appello e la Cassazione, ma intanto vuol dire che hanno rischiato la condanna e il carcere 110 innocenti.  

Fortunato Vinci – www.lidealiberale.com – Agenzia Stampa Italia    

     

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