Tra innocentisti e giustizialisti match assurdo, due sconfortanti tifoserie contro la giustizia

 

Siamo un Paese sempre diviso su tutto. Senza tornare ai Guelfi e ai Ghibellini, negli ultimi giorni ci sono state accese competizioni tra chi era favorevole alla chiusura, per il Sars-CoV-2, alle 22 e chi alle 23. Ora i riflettori sono puntati sui commensali: quattro o sei? Dentro o fuori? Una disperazione per i ristoratori, e anche per i clienti.  Ma dove la rissa è diventata infuocata, ed è veramente insopportabile, è sulla giustizia. Da anni sentiamo dire che quel politico, quel partito, è garantista, in contrapposizione ad un altro esponente politico, o partito, appartenente ad un’altra fazione che sarebbe, al contrario, giustizialista. E, pensando di avere più credibilità, vengono arruolati, tra queste surreali consorterie, anche i magistrati; spero e mi auguro a loro insaputa. Il momento di maggior fulgore, di questo derby sfrenato, si è avuto nel periodo di tangentopoli. Allora, il tifo dei cosiddetti giustizionalisti, in larga maggioranza, aveva la sua stella in Antonio Di Pietro, fuoriclasse in campo, con il suo pool di magistrati inquirenti di Milano. Questo ruvido match è tornato, ora, di stretta attualità, perché c’è, nell’agenda di Mario Draghi, e del ministro della Giustizia, Marta Cartabia, la riforma della giustizia e, contestualmente, la raccolta firme per un referendum proposto dal Partito Radicale e l’appoggio del segretario della Lega, Matteo Salvini. Ma la contrapposizione tra garantisti e giustizionalisti, quello che sta avvenendo tra politici, giornalisti, opinione pubblica, è uno scontro che si perpetua nel tempo, ma è assurdo e inconcepibile. Non è, come vorrebbe intenderlo qualcuno, il confronto tra due idee di giustizia, significa, al contrario, la negazione della giustizia, peraltro, una contraddizione in termini. La giustizia non può che essere una. Solo una. Non a caso, il simbolo della giustizia è rappresentato da una bilancia in perfetto equilibrio, se pende da una parte o dall’altra, non è, non può essere, ovviamente, giustizia. Quando - oggi sulla Stampa -  Maria Elisabetta Casellati, presidente del Senato, dice “basta con la barbarie giustizialista”, ha ragione.  Ma altrettanta barbarie c’è tra gli innocentisti. Quando torno a caso e vedo la porta di ferro divelta e il vuoto lasciato dai ladri che hanno portato via tutto quello che potevano portare via, compreso qualche oggetto, che per me aveva un valore affettivo straordinario, e, dopo due anni, mi vedo recapitare dalla procura della Repubblica la notizia che l’inchiesta (ammesso che sia stata mai aperta) è stata archiviata, sento il peso enorme di uno Stato debole, fragile, inefficiente, che non sa difendere e garantire la sicurezza ai suoi cittadini. E, forse, sarebbe stato peggio se li avessero scoperti, malviventi senza alcuna pena da scontare, sarebbero rimasti a spasso, a passeggiare come prima. Anche questa è barbarie, altrettanto grave, per lo Stato e la convivenza civile. E si commette un grave errore anche quando si rappresenta il pubblico ministero, il magistrato che sostiene l’accusa, come giustizionalista ed il giudice che, dopo la dialettica dibattimentale, valuta l’operato dell’accusa, e decide con la sentenza, appartenente ai garantisti. Un clamoroso equivoco che serve solo ad alimentare polemiche inutili e pretestuose. Tanto è vero che, in alcune sentenze, capita che la condanna sia più pesante delle richieste avanzate dal pm. Per questo mi pare del tutto inutile la divisione delle carriere, tra giudici e pm, come chiedono, da diversi lustri, alcuni politici e che ora è uno dei sei quesiti del referendum. È inutile perché sia il pm che il giudice, hanno, devono avere, seppure con ruoli e percorsi diversi, lo stesso, identico obiettivo: accertare la verità e, attraverso il rigoroso rispetto della legge, amministrare la giustizia. Con equilibrio e onestà, senza tifo e assurde tifoserie al seguito.

   Fortunato Vinci – www.lidealiberale.com – Agenzia Stampa Italia   

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