Pro e contro i quesiti referendari sulla Giustizia
Com’
è noto i Radicali, con l’appoggio della Lega di Matteo Salvini, hanno predisposto
la raccolta delle firme per sei quesiti referendari sulla Giustizia. Suppongo
che gli ideatori dell’iniziativa, più che pensare a ottenere le riforme
attraverso l’iniziativa popolare, con la raccolta di 500.000 firme, abbiano maturato
l’idea allo scopo di sollecitare il Parlamento ad intervenire su alcune
questioni che riguardano la magistratura e la Giustizia. Vediamo. Il primo
quesito riguarda l’abolizione della necessità di raccolta delle firme (da 25 a
50) per i magistrati che intendono candidarsi al Consiglio superiore della
magistratura. Tutti così si potranno presentare senza bisogno di cercare, con
le firme, anche possibili, imbarazzanti compromessi. In pratica si tratta di
abolire le “correnti”, che tanti, pesanti e sconcertanti condizionamenti hanno
fatto in questi anni, come ha raccontato, tra gli altri, Luca Palamara. Non si
può, quindi, che essere d’accordo. Il
secondo quesito riguarda la responsabilità civile dei magistrati; che paghino
personalmente, come tutti i cittadini, per gli errori commessi. In teoria già
c’è la responsabilità civile, è stata concepita nel 1987, dopo il referendum
popolare, con l’80% dei voti, ma è un risarcimento fatto dallo Stato che poi si
può rivalere sul magistrato. Ora avviene attraverso un percorso piuttosto
complicato tanto che, in tutti questi anni, non ha pagato quasi nessuno. Penso,
invece, che bisognerebbe fare di più. Un
magistrato che sbaglia ripetutamente, e in maniera clamorosa e incomprensibile
(vedi, per tutti, i processi e le condanne di Enzo Tortora) debba essere
mandato via dalla magistratura. Anche questo quesito, comunque, è da
condividere. La terza questione è in qualche modo legata al quesito precedente perché
riguarda il giudizio professionale dei magistrati, che attualmente vengono
valutati dai colleghi e invece si vorrebbe dare più peso, nella formulazione
del giudizio, alla componente non togata, cioè avvocati e professori
universitari. Quesito pessimo. Si peggiorerebbe la situazione, dando un’arma pericolosa,
condizionante e vendicativa, in mega conflitto di interessi, agli avvocati. Il
quarto quesito prende in esame la separazione delle carriere. Tra i magistrati,
chi sceglie di fare il pubblico ministero (Pm), cioè la carriera nella funzione
inquirente non possa fare quella giudicante, e viceversa, come succede adesso.
Io penso che il Pm che fa le indagini, cerca le prove e svolge la funzione accusatoria
e il giudice, che decide con la sentenza, debbano, entrambi, avere lo stesso
obiettivo. Fare tutto, seppure con
percorsi e modalità diversi, per ottenere lo stesso risultato, che poi è
quello, attraverso le indagini e il dibattimento, di accertare la verità e quindi
amministrare la giustizia. Essere in
elenchi diversi non dovrebbe fare alcuna differenza. Quesito inutile, che, per
le ragioni suddette non dovrebbe nemmeno essere proposto. Inerente al carcere
preventivo è il quinto quesito. La
custodia cautelare prima della sentenza definitiva, che come prevede la
Costituzione arriva solo dopo il terzo grado di giudizio, è prevista solo in
tre ipotesi. Quando ci potrebbe essere l’inquinamento delle prove, il pericolo
di fuga e la reiterazione del reato. I cittadini sono chiamati a modificare la
terza circostanza, che è, in verità, un po’ vaga e difficile da accertare
concretamente, ed è usata, secondo quanto sostengono i presentatori del
referendum, con frequenza eccessiva. Forse è vero, ma se per scontare in carcere
la pena bisogna aspettare il terzo grado di giudizio, con i tempi biblici della
giustizia, finisce che per la stragrande maggioranza dei condannati, il carcere
non ci sarà mai, o sarà solo per qualche giorno. Non è una considerazione da
giustizionalista, è che se tutti possono fare quello che vogliono, senza mai
pagare, diventa (se non lo è già) un Paese allo sbando. Con la beffa delle
vittime e dello Stato. Già adesso, casi così si sono verificati infinite volte.
Il sesto, e ultimo, quesito riguarda l’incandidabilità dei condannati. La legge
Severino (d.leg.235 del 2012) prevede in caso di condanna, per alcune
specifiche e gravi ipotesi di reato, come corruzione e concussione,
l’applicazione automatica della sanzione accessoria dell’incandidabilità alla
carica parlamentare, consigliere e governatore regionale, sindaco e amministratore
comunale. Il quesito referendario, che ne chiede l’abrogazione, intende
“abolire l’automatismo per quanto riguarda i termini di incandidabilità,
inelegibilità e decadenza, lasciando al giudice la decisione. Caso per caso, se
comminare, oltre alla sanzione penale, anche la sanzione accessoria
dell’interdizione dai pubblici uffici e per quanto tempo”. Qualcuno ha già
detto che il quesito è in contrasto, per quanto riguarda la corruzione, a leggi
europee, ma al di là di questo, che pure non è un dettaglio, credo che sia sbagliato
cancellare questa legge. Non solo perché lasciare che l’eventuale incandidabilità
la decida il giudice, nella sentenza, darebbe ancora più potere, anche
politico, ai giudici, ma anche perché i corrotti, potrebbero essere
ripresentati e occupare di nuovo, come se nulla fosse avvenuto, incarichi istituzionali
assai delicati. Un messaggio devastante, un’immagine pessima di uno Stato che,
con inspiegabile e insopportabile pervicacia, pensa sempre a tutelare più i
condannati che gli onesti.
Fortunato Vinci – www.lidealiberale.com
– Agenzia Stampa Italia
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