Il giudice con la matita rossa e blu per correggere gli articoli dei giornalisti. Le pretese, gravi e assurde, di una sentenza
È
difficile stupirsi dopo aver fatto, e, spesso, come bastian contrario, il
giornalista per 50 anni, eppure, leggendo, quello che è successo a Marco
Travaglio, direttore de “il Fatto Quotidiano”, nella causa promossa dalla
presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, nei confronti del
giornalista per diffamazione, sono rimasto oltre che stupito, frastornato, indignato
e preoccupato. Non per difendere Marco Travaglio, che non ha certamente bisogno
del mio aiuto, ma la vicenda è grave perché riguarda tutti, non solo i
giornalisti, interessa tutti perché tocca, e pesantemente sfregia,
quell’articolo 21 della Costituzione che solennemente prescrive: “Tutti hanno
diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo
scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad
autorizzazioni e censure”. Questa libertà non serve a tutelare i giornalisti, serve
alla democrazia, è una pietra miliare della democrazia. In breve sintesi la
querelle. Il giornalista ha scritto più di 200 articoli in cui criticava alcuni
atti e fatti della Casellati, che è la seconda carica dello Stato e che, quindi,
nell’esercito delle sue altissime funzioni istituzionali, dovrebbe essere un
modello di correttezza, cosa che, invece, per il giornalista, non sempre è
stata, e, per questo, ha ritenuto opportuno disapprovare il suo operato. Il
giudice, nella sentenza, riconosce “che i fatti storici narrati, sono veri”,
“la critica legittima”, “non si vede quale sia il contenuto diffamatorio” e
quindi “esclude la campagna mediatica” diffamatoria. Dopo aver premesso tutto
questo, il giudice, però, ha trovato tre parole, che lui ha ritenuto non
consone, e lo ha condannato a pagare: “5.000 euro per l’utilizzo del termine
“marchette”, “10.000 euro per gli articoli sulle minacce e 10.000 per l’articolo
sulla bestemmia”. Ma non doveva giudicare sulla diffamazione? Un giornalista
usa i termini che ritiene più utili ed efficaci, per rappresentare i fatti di
cui si occupa e per suscitare la curiosità e l’interesse dei lettori. Lo fa
spesso, peraltro, in tempi assai ristretti. Il giudice, pur riconoscendo la estrema
correttezza del giornalista, invece, si è addentrato in un altro campo, con un
singolare straripamento di potere, giudicando anche l’uso dei termini, e, nel
far questo, ha usato la matita rossa e blu come facevano, una volta, gli
insegnanti d’italiano. E l’ha usata anche in modo sbagliato. Così, se dovesse
essere questo il modo di giudicare, vuol dire che possono essere condannati,
sempre, tutti i giornalisti. Non importa la verità dei fatti, la correttezza
professionale e la buona fede. Deve usare anche le parole che siano di
gradimento al giudice. Se fosse così converrebbe a tutti querelare il
giornalista, una parola sbagliata, secondo l’assoluta discrezionalità del
giudice, si può sempre trovare e con essa la condanna del giornalista. E’ assurdo.
È una sentenza di una gravità inaudita, perché il giudice, in questo caso, si è
appropriato, arbitrariamente, e con valutazioni del tutto soggettive, di un
potere straordinario che non ha. Stupisce anche il fatto che una fine giurista,
qual è certamente la Casellati (avvocato, con quattro anni di esperienza nel
Csm) non abbia capito che il giornalista, in tutti questi articoli, non ha commesso
alcun reato. Meno male che non ha fatto il giudice. E' inutile aggiungere che si auspica una decisa e immediata presa di posizione da parte del Consiglio nazionale dell'Ordine dei Giornalisti e della Federazione nazionale della Stampa.
Fortunato Vinci - www.lidealiberale.com
- fortunatopantaleonevinci@virgilio.it
- Agenzia Stampa Italia
Caro Fortunato, condivido pienamente le tue osservazioni circa l’operato del giudice che, nel caso citato, usa per la sentenza la penna blu e rossa.Vi è però utile aggiungere un’osservazione. Rifacendomi ad una frase di Enzo Tortora “ esistono tre categorie che sono irresponsabili del loro operato: i bambini, i malati di mente ed i magistrati “. Aggiungo che le tue osservazioni devono essere estese a 360 gradi e non essere inquadrate in una parte politica, se questo fa comodo. In altri termini l’influenza partitica sulla magistratura, secondo il mio parere, costituisce il male profondo che attanaglia l’operato del potere giudiziario. Ciò prospera ovviamente poiché fa comodo al sistema dei partiti. Il referendum dovrebbe rispondere di tali anomalie.
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